I LINFOMI
Cosa sono
Il linfoma è un tumore che prende origine dai linfociti (un tipo di globulo bianco) presenti normalmente nel sangue e nei linfonodi (o ghiandole linfatiche) distribuiti in tutto il corpo lungo il percorso dei vasi linfatici. I linfociti si formano e maturano negli organi linfatici e vengono poi immessi nel sangue. Tramite il sangue raggiungono quindi tutti gli organi del corpo: il loro compito è quello di ricercare
antigeni estranei (cioè molecole che vengono riconosciute come non appartenenti all’organismo e potenzialmente pericolose per l’organismo stesso) e di eliminarli. I linfociti tumorali perdono in efficacia nella loro funzione di difesa dell’organismo,
ma non perdono la capacità di circolare nel corpo: per questo motivo i linfomi sono considerati malattie “sistemiche”, cioè potenzialmente diffuse sin dall’inizio a tutto l’organismo, anche a distanza dal luogo d’origine. Dai linfonodi la malattia può quindi diffondersi attraverso il sangue e/o i vasi linfatici ad altri linfonodi e organi, sia linfatici (midollo, milza), sia non linfatici (cute, polmoni, sistema nervoso
centrale, stomaco, fegato ecc.).
I linfomi sono suddivisi in due grandi categorie: linfoma di Hodgkin (LH) e linfomi non Hodgkin (LNH).
Linfoma di Hodgkin
Il Linfoma di Hodgkin prende il nome dal medico che, nel 1832, descrisse per primo alcuni casi di linfoma caratterizzati, quando osservati al microscopio, dalla presenza di cellule molto caratteristiche dal punto di vista della forma e delle dimensioni. Queste cellule distinguono, di fatto, i linfomi di Hodgkin da tutti gli altri, per facilità denominati “non Hodgkin”. Tale suddivisione è tutt’ora utilizzata nella pratica clinica per le differenze in termini di prognosi e di approccio terapeutico.
Il linfoma di Hodgkin può presentarsi in soggetti di tutte le età, ma è più frequente nei giovani adulti. Un tempo si dava molta importanza alla sua distinzione in vari tipi istologici (cioè diversi aspetti delle cellule osservate al microscopio). Oggi si sa che ai fini della risposta alla terapia questa suddivisione risulta meno importante, fatta eccezione per la forma detta “nodulare a predominanza linfocitaria”, che risulta utile distinguere dalle altre poiché richiede un trattamento diverso.
Linfomi non Hodgkin
I linfomi non Hodgkin sono convenzionalmente raggruppati in due gruppi principali: linfomi INDOLENTI (a basso grado di malignità o a crescita lenta) e linfomi AGGRESSIVI (ad alto grado di malignità o a crescita rapida). Un’ulteriore classificazione tiene conto del tipo di cellule prevalenti nel linfonodo malato, per cui si distinguono linfomi non Hodgkin a cellule “B” o a cellule “T”, sulla base del tipo di linfocita da cui originano le cellule tumorali.
Le cause dei linfomi sono ancora sconosciute nella maggioranza dei casi.
Come in tutte le malattie tumorali, il DNA dei linfociti malati (cellule del linfoma) può essere alterato (contenere mutazioni) a causa dell’azione di sostanze chimiche, virus, radiazioni, ecc. Le cellule perdono così la capacità di controllare la propria crescita e morte in modo ordinato e, accumulandosi nell’organismo, danno origine al tumore.
Il sintomo che più frequentemente spinge il paziente a rivolgersi al medico è l’ingrossamento di uno o più linfonodi superficiali nella regione del collo, delle ascelle o dell’inguine.
I linfonodi ingrossati a causa di un linfoma in genere non provocano dolore e, alla palpazione, appaiono di consistenza più dura rispetto ai linfonodi normali. Può verificarsi anche un ingrossamento contemporaneo di linfonodi in più zone del corpo e, a volte, sintomi generici come febbre o febbricola, stanchezza, sudorazione notturna, prurito, diminuzione del peso corporeo.
Altri sintomi possono manifestarsi in modo variegato a seconda di fenomeni di compressione causati dai linfonodi ingrossati su organi e tessuti vicini:
- rigonfiamento del collo, tosse, fatica a respirare, dolori al torace, per la presenza di linfonodi ingrossati nel collo e/o nel torace e/o infiltrazione dei polmoni;
- mancanza di appetito, sensazione di precoce sazietà, dolori addominali, diarrea, per l’interessamento dello stomaco e/o dell’intestino o presenza di grosse masse addominali (milza, linfonodi);
- confusione mentale, alterazioni della personalità, disturbi della parola, perdita della forza in uno o più arti, come segno di infiltrazione del sistema nervoso.
Tuttavia, questi sintomi non sono specifici dei linfomi e per escludere altre malattie e stabilire la diagnosi è sempre necessaria la biopsia del linfonodo patologico.
La diagnosi di linfoma rappresenta un processo che comunemente coinvolge più figure professionali, ciascuna con specifica esperienza clinico-terapeutica (ematologo), chirurgica (chirurgo toracico, chirurgo generale), morfologica (anatomopatologo), di diagnostica per immagini (radiologo e medico nucleare) e biologico-molecolare (biologo o biotecnologo).
Più frequentemente il medico specialista (ematologo, oncologo o chirurgo) pone il sospetto diagnostico dopo attenta anamnesi ed esame fisico (o esame obiettivo), supportato da eventuali esami del sangue e radiologici. Per la diagnosi conclusiva è tuttavia indispensabile la biopsia del tessuto malato: il preparato ottenuto viene quindi valutato dall’anatomopatologo. La biopsia permette inoltre di stabilire il tipo di linfoma, permettendo così di scegliere il trattamento più adeguato.
Il momento della diagnosi è quindi caratterizzato abitualmente dalle due seguenti procedure:
- Anamnesi ed esame fisico. Consiste nella raccolta della storia clinica e dei sintomi soggettivi del paziente. Il medico valuterà tutte le stazioni linfonodali del collo, ascelle, inguine e controllerà l’ingrandimento della milza e del fegato.
- Biopsia linfonodale. La biopsia linfonodale consiste nell’asportazione di un linfonodo ritenuto patologico, allo scopo di analizzarlo al microscopio per determinare la presenza e il tipo di cellule linfomatose. Se il linfonodo che si vuole analizzare è superficiale, cioè è palpabile dal medico durante la visita, la procedura è semplice e viene per lo più effettuata da un chirurgo in regime ambulatoriale e in anestesia locale. Se, invece, il linfonodo è profondo, cioè situato all’interno del torace o dell’addome, è necessario un intervento chirurgico in anestesia generale. È anche possibile optare per il prelievo di solo un pezzo di linfonodo superficiale o profondo tramite un apposito ago con l’aiuto dell’ecografia o della TAC (biopsia eco-o tac- guidata), effettuato generalmente da un medico radiologo. Quest’ultimo approccio ha il vantaggio di essere meno invasivo, ma di fornire meno materiale per l’analisi all’anatomopatologo, con il rischio che l’indagine non sia quindi conclusiva e debba essere ripetuta.
Con il termine stadiazione (“staging”) si intende la raccolta di risultati di esami finalizzati a capire quanto il linfoma sia diffuso nel corpo e di conseguenza quale terapia scegliere. Gli esami più importanti per un corretto “staging” possono essere rappresentati come segue.
Esame del sangue. Si tratta di esami di laboratorio eseguiti su un semplice prelievo di sangue venoso, finalizzati alla conta delle cellule del sangue, alla valutazione della funzionalità dei reni, del fegato e di altri parametri utili per monitorare la malattia.
Aspirato midollare, biopsia osteo-midollare, esami radiologici. Queste indagini permettono di valutare se le cellule del linfoma sono presenti anche nel midollo osseo (sede di produzione delle cellule del sangue). Lo studio del midollo può essere fatto mediante 2 tipi di prelievo effettuati tramite strumenti specifici in corrispondenza della parte posteriore dell’osso del bacino (cresta iliaca posteriore superiore). Questi prelievi sono eseguiti in ambulatorio in circa 15-20 minuti, dopo una semplice anestesia locale.
Aspirato midollare: dopo opportuna anestesia, il medico utilizza un ago specifico che permette di aspirare 5-10 millilitri (ml o cc) della parte più liquida del midollo osseo, detta sangue midollare. Al termine della procedura viene applicato un cerotto e, se necessario, un impacco di ghiaccio per circa 15 minuti.
I campioni prelevati sono quindi inviati in laboratorio per le analisi più opportune.
Il paziente può avvertire un leggero e transitorio fastidio/dolore durante l’esecuzione della manovra, più spesso nel momento della aspirazione del campione, che dura pochi secondi. È possibile tornare alle abituali occupazioni nel corso della stessa giornata.
Biopsia osteomidollare (BOM): procedura sostanzialmente identica alla precedente, eseguita però con un ago diverso che permette di estrarre un piccolo frammento (o frustolo) di midollo osseo di forma cilindrica, che viene inviato agli specialisti anatomopatologi per l’osservazione al microscopio. Anche in questo caso è possibile tornare alle abituali occupazioni nel corso della stessa giornata, ma è più comune una sensazione di indolenzimento locale nei giorni successivi.
RX Torace. È una radiografia che serve ad avere una valutazione basale del torace e dei principali organi ivi contenuti (cuore, polmoni, profilo dei grossi vasi venosi e arteriosi) e permette inoltre di valutare la presenza di eventuali linfonodi ingrossati nel torace.
TAC (tomografia assiale computerizzata). È un esame radiologico che permette di esaminare gli organi interni in modo più preciso della radiografia. In genere, per visualizzare meglio le strutture dell’organismo, si somministra un mezzo di contrasto per via endovenosa (in una vena del braccio). Il contrasto può talvolta indurre una transitoria alterazione del gusto o una transitoria sensazione di freddo e, come per molti altri farmaci, può scatenare reazioni allergiche (in soggetti predisposti) per cui è importante avere in anticipo informazioni su precedenti allergie del soggetto sottoposto all’esame. Vengono quindi ottenute diverse immagini radiologiche (scansioni), vere e proprie “fotografie” degli organi interni, che vengono valutate e interpretate dallo specialista radiologo.
PET (Tomografia a Emissione di Positroni). Anche la PET consente di identificare le principali sedi di malattia all’interno dell’organismo, sfruttando però il principio secondo cui le nostre cellule assumono zuccheri (glucosio) per sopravvivere e moltiplicarsi. Le cellule tumorali, moltiplicandosi più velocemente rispetto a quelle normali, consumano pertanto più zuccheri e possono essere visualizzate nel corpo proprio mediante somministrazione di uno zucchero tracciabile. Prima dell’esame viene iniettato per via endovenosa un liquido che contiene zucchero legato a una sostanza radioattiva: questo liquido si distribuisce nel corpo tramite il sangue e si concentra maggiormente nelle cellule del tumore. Dopo circa 1 ora dall’iniezione viene ottenuta una serie di immagini (per una durata complessiva di circa 30 minuti) mediante un’apparecchiatura chiamata “tomografo PET-TAC” (o semplicemente “PET”) che rileva le radiazioni emesse dallo zucchero radioattivo, mettendo in risalto l’accumulo nelle zone in cui il linfoma è presente. Tuttavia, non tutti tipi di linfomi sono evidenziati efficacemente dalla PET, per cui questo esame deve essere impiegato per situazioni specifiche che vengono indicate dal medico specialista.
Il radiofarmaco utilizzato non provoca allergia né altri effetti collaterali.
Le immagini ottenute sono quindi interpretate dallo specialista medico nucleare, e le informazioni ottenute sono complementari rispetto alle immagini ottenute con la TAC, mettendo in evidenza le zone del corpo più “attive” dal punto di vista funzionale.
RMN (Risonanza Magnetica Nucleare). La RMN è una tecnica radiologica che usa campi magnetici e onde elettromagnetiche a radiofrequenza, ed è più adatta della TAC per valutare zone particolari del corpo, ad esempio i tessuti molli e organi come il cervello o e le radici dei nervi della colonna vertebrale. Per l’esecuzione della RMN è richiesto al paziente di stare fermo su un lettino all’interno di un tunnel metallico che contiene un grande magnete. Durante l’esame è udibile un rumore ritmico abbastanza intenso provocato dal normale funzionamento dell’apparecchiatura. La procedura dura circa 30-50 minuti e non è dolorosa.
Non è necessario seguire preparazioni, né diete particolari. A volte, a discrezione del medico e in relazione al tipo di patologia da studiare, può essere somministrato un mezzo di contrasto per via endovenosa, solitamente innocuo per l’organismo.
Sulla base dei risultati degli esami suddetti, è più facile valutare le localizzazioni della malattia e definirne lo stadio. Per rendere standardizzata in tutto il mondo questa operazione si utilizzano delle classificazioni riconosciute a livello internazionale, che permettono di identificare 4 possibili stadi: stadio I e II, più localizzati, e stadi III e IV, che corrispondono a linfomi più estesi nell’organismo.
Sulla base delle caratteristiche del paziente, del tipo di linfoma e dello stadio viene quindi deciso il trattamento più opportuno.
La chemioterapia è un trattamento sistemico (cioè una terapia in cui i farmaci si diffondono in tutto il corpo, tramite il sangue) basato sul principio secondo il quale le cellule tumorali si riproducono più rapidamente di quelle normali. L’effetto della chemioterapia, infatti, si esplica soprattutto sui tumori (nei quali le cellule crescono velocemente), ma anche su alcuni tipi di cellule sane la cui crescita normale è particolarmente rapida (es. le cellule dei bulbi piliferi e delle mucose dell’apparato digerente). Si spiegano così i più comuni effetti indesiderati di questi trattamenti (perdita di capelli, anemia e calo delle difese immunitarie, vomito, diarrea e infiammazione o infezioni della bocca).
Il termine “chemioterapia” sta ad indicare una terapia eseguita mediante infusione di farmaci ottenuti da molecole chimiche (definiti chemioterapici o citostatici) con la capacità di interferire con la rapida crescita delle cellule tumorali o di impedirne la replicazione.
Abitualmente vengono somministrate combinazioni standard di più farmaci, dimostrati sinergici nell’ottenimento del migliore risultato possibile. Questa somministrazione avviene di solito per uno o più giorni, in più riprese (cicli) con un intervallo variabile di tempo tra un ciclo e l’altro.
Prima di iniziare il trattamento i pazienti vengono sottoposti ad esame del sangue e a visita medica. Se le analisi del sangue sono nella norma si procede con il trattamento, mentre se alcuni parametri sono alterati (generalmente al di sotto dei valori normali, soprattutto il livello dei globuli bianchi e dell’emoglobina) la terapia potrebbe essere rimandata di qualche giorno o somministrata a dosi ridotte (a seconda del giudizio clinico del medico).
Per ridurre l’insorgenza e l’entità di effetti indesiderati (prevalentemente nausea e vomito), le singole sedute di chemioterapia sono generalmente precedute dalla somministrazione di una terapia preventiva, detta premedicazione.
Infusione endovenosa: nella maggior parte dei casi la chemioterapia è somministrata attraverso un’infusione endovenosa (EV). Alcuni farmaci chemioterapici possono essere somministrati in una vena periferica con un ago-cannula, ma la maggior parte richiede di essere somministrata in una vena grossa vena più “centrale” (ovvero più vicina al cuore). Per fare ciò è necessario il posizionamento di un catetere venoso centrale (CVC), di solito di tipo PICC: un tubicino sottile, generalmente inserito in una vena periferica del braccio, che si dirige alla vena centrale. Il posizionamento viene fatto in anestesia locale e non è doloroso. Il PICC viene lasciato in sede per circa 6 mesi finché non si completano i cicli di chemioterapia, ed è invisibile se non per l’estremità che si trova nel braccio, che viene di solito nascosta da una fascia. Dal CVC si possono eseguire anche i prelievi del sangue, evitando così di dover essere “bucati” per ogni analisi, e necessitano di essere regolarmente medicati, generalmente a cadenza settimanale da un infermiere.
In caso di terapie più prolungate è possibile che venga proposto il posizionamento di altri tipi di CVC che possono essere mantenuti in sede più a lungo e vengono medicati con minore frequenza.
Al momento dell’infusione il paziente vedrà molte flebo ma, in realtà, solo alcune conterranno farmaci chemioterapici, mentre le rimanenti conterranno liquidi per idratazione, lavaggio o farmaci per la prevenzione degli effetti collaterali.
Dopo la premedicazione comincerà la somministrazione della chemioterapia vera e propria, un farmaco alla volta. La somministrazione di ogni farmaco ha durata variabile: comunemente dai 20-30 ai 60-90 minuti, ma in rari casi si ha la necessità di somministrare farmaci chemioterapici in infusione continua nell’arco di più giorni consecutivi, eventualità che richiede pertanto il ricovero ospedaliero.
Via orale: la somministrazione di chemioterapici per bocca, per via orale o per os (PO), mediante capsule rigide o compresse, rappresenta per alcuni farmaci un’alternativa all’infusione in vena.
La chemioterapia orale si adatta meglio alle attività quotidiane del paziente, risultando più confortevole. Le compresse, infatti, possono essere assunte a casa, secondo lo schema che il medico fornisce al paziente.
Come per la chemioterapia classica, il trattamento si fa rispettando cicli stabiliti che prevedono anche periodi di riposo.
Purtroppo, non tutti i farmaci sono disponibili per la somministrazione per via orale.
Via sottocutanea: nel corso degli ultimi anni, si è assistito ad una maggiore disponibilità di chemioterapici somministrabili per via sottocutanea (SC).
Il tessuto sottocutaneo è quella porzione adiposa compresa tra cute e muscolo. Ha uno spessore variabile di circa 2mm e pertanto richiede l’utilizzo di una siringa con un ago più corto rispetto alle siringhe classiche.
I benefici di una terapia SC sono molteplici: la modalità di somministrazione è meno invasiva rispetto a quella endovenosa, può avvenire in tempi più rapidi (circa 5 minuti) e non vi è attesa per la poltrona d’infusione. Questo significa che anche la permanenza in ospedale è ridotta al minimo indispensabile.
La somministrazione può avvenire in sedi diverse: l’addome, la coscia o il braccio. L’arrossamento e il fastidio nella sede della somministrazione rappresentano effetti collaterali abbastanza comuni ma ben controllabili.
Via intratecale: in alcune forme di linfoma in cui le cellule tumorali invadono il sistema nervoso centrale (SNC) i chemioterapici possono essere somministrati direttamente nel fluido cerebrospinale (o liquor), che è il liquido che circonda e avvolge le strutture che fanno parte del SNC, proteggendole da eventuali traumi.
Questo tipo di terapia prende il nome di “terapia intratecale”.
La terapia intratecale prevede la somministrazione dei chemioterapici con una puntura lombare: viene inserito un ago molto sottile tra le vertebre del paziente fino a raggiungere lo spazio contenente il liquor. Alcuni cc di liquor vengono raccolti per essere analizzati, per poi iniettare i farmaci chemioterapici. La procedura può provocare del fastidio nel momento in cui viene effettuata e può causare mal di testa nelle ore successive, motivo per cui è importante rimanere sdraiati per circa 2 ore dopo la procedura ed evitare nella giornata degli sforzi fisici intensi.
Terapie a bersaglio molecolare. Le terapie a bersaglio molecolare (dette anche terapie mirate o target therapy) in ambito oncologico agiscono con il fine di bloccare e/o inibire i processi intracellulari da cui dipendono la crescita e lo sviluppo del tumore.
In particolare, possono essere in grado di:
- diminuire la proliferazione delle cellule cancerose, ovvero la loro incontrollata capacità di crescere e dividersi;
- ostacolare l’angiogenesi, ossia lo sviluppo di nuovi vasi sanguigni indispensabili a nutrire il tumore;
- promuovere l’apoptosi delle cellule tumorali, ovvero la loro morte programmata;
- stimolare il sistema immunitario, cioè le difese dell’organismo, a identificare e distruggere le cellule tumorali;
- liberare sostanze tossiche che agiscono direttamente sulle cellule cancerose.
La terapia a bersaglio molecolare è una terapia che viene utilizzata sempre più di frequente nella cura dei linfomi e che non utilizza chemioterapici, ma farmaci biologici, così definiti perché “mimano” sostanze presenti nell’organismo, ma sono in realtà prodotti in laboratorio; è una terapia “mirata” perché diretta contro un “bersaglio” specifico.
Nella maggioranza dei casi, il bersaglio è una proteina presente sulla superficie o all’interno della cellula tumorale. Il farmaco target si lega al suo bersaglio e ne impedisce o modifica la funzione bloccando così la crescita delle cellule tumorali.
L’azione specifica dei farmaci biologici contro le cellule tumorali permette di ridurre gli effetti indesiderati rispetto a quanto succede con la chemioterapia, e questo si traduce in un miglioramento della qualità della vita dei pazienti. La terapia a bersaglio può inoltre essere combinata con la chemioterapia tradizionale, aumentandone l’efficacia.
Terapia con anticorpi. Negli ultimi anni si sono ottenuti miglioramenti nei trattamenti per la cura dei linfomi grazie all’associazione della chemioterapia agli anticorpi monoclonali.
Gli anticorpi sono molecole prodotte dal sistema immunitario in grado di riconoscere in modo specifico alcune proteine presenti sulla superficie delle cellule estranee all’organismo (antigeni). L’incontro anticorpo-cellula estranea stimola il sistema immunitario a reagire contro la cellula stessa, con l’obiettivo di distruggerla.
Gli anticorpi monoclonali sono anticorpi prodotti in laboratorio che si legano agli antigeni presenti sulle cellule del linfoma, danneggiandole in modo diretto o facendo sì che siano più facilmente distrutte dal sistema immunitario del soggetto che viene trattato. Possono essere somministrati da soli o in associazione ad un trattamento chemioterapico, a seconda del tipo di linfoma.
Grandi speranze sono inoltre riposte nei cosiddetti “anticorpi bispecifici”, la cui introduzione nella pratica clinica è ancora più recente: si tratta di anticorpi che legano contemporaneamente le cellule del linfoma e le cellule sane del sistema immunitario del paziente, indirizzando queste ultime a distruggere le cellule malate.
Immunoterapia. Questo tipo di terapia è estremamente innovativa ed è stata sviluppata negli ultimi anni.
Il sistema immunitario è il sistema di difesa naturale del nostro organismo, che ci protegge non solo da ospiti sgraditi come virus, batteri e parassiti, ma anche dalle nostre stesse cellule quando vengono alterate e causano malattie come i tumori.
Quando, ad esempio, un batterio entra nel nostro organismo, il sistema immunitario lo riconosce come corpo estraneo, lo aggredisce e lo neutralizza, così che questo non possa causare un danno. Questo processo prende il nome di risposta immunitaria.
Le cellule cancerogene sono molto differenti rispetto a quelle normali per cui il sistema immunitario tenderebbe a riconoscerle come corpi estranei e le attacca. Le cellule tumorali però trovano dei sistemi per ingannare il sistema immunitario sfuggendo ai meccanismi di difesa o provocandone uno spegnimento. Inoltre, le cellule tumorali possono cambiare nel tempo, e anche questo fa sì che esse riescano a sottrarsi alla risposta immunitaria. Le difese immunitarie naturali non sono pertanto sufficienti per sconfiggere il tumore.
L’immunoterapia oncologica (detta anche terapia immunologica o terapia immuno-oncologica) agisce attivando il sistema immunitario del paziente, potenziandolo e rendendolo in grado di riconoscere e distruggere le cellule cancerogene.
Questo tipo di terapia è diversa da tutte le terapie finora menzionate: non agisce direttamente sulle cellule tumorali, ma agisce sui sistemi di difesa dell’organismo messi in atto contro il tumore, stimolandolo ad attaccare in modo selettivo le cellule tumorali.
Al momento, l’immunoterapia viene impiegata in alcuni tipi di linfoma, ed è in grado di ottenere risultati apprezzabili anche in pazienti che hanno già ricevuto, senza successo, diversi tipi di terapie precedenti e per i quali non si avrebbero ulteriori possibilità terapeutiche standard disponibili. Attualmente numerosi farmaci immunologici sono in fase di sviluppo.
Radioterapia. La radioterapia (o RT) è una tipologia di cura che si serve di radiazioni dette “ionizzanti”, e viene impiegata sia nel trattamento del linfoma di Hodgkin, che dei linfomi non-Hodgkin. Può essere utilizzata da sola quando il linfoma è in stadio localizzato (stadio I o II) o in associazione ad altre terapie quando invece la malattia è più estesa.
È un trattamento indolore che viene diretto su zone ben delimitate del corpo dove sono presenti, al momento della diagnosi, i linfonodi coinvolti dal linfoma di maggiori dimensioni, o sui linfonodi che non sono ritornati alle loro dimensioni normali dopo una terapia somministrata al paziente prima della RT (e che quindi possono essere ancora malati), o che dimostrano ancora di essere attivi all’indagine PET. Le radiazioni utilizzate in radioterapia oncologica possono essere definite come raggi dotati di una particolare forma di energia, generata da apparecchiature molto sofisticate chiamate acceleratori lineari, che colpiscono le cellule malate nel distretto corporeo che viene irradiato, danneggiandole e uccidendole.
Nel corso degli anni sono state sviluppate modalità di radioterapia sempre più precise così da ridurre al massimo la zona da trattare risparmiando l’irradiazione degli organi circostanti e riducendo la tossicità del trattamento. In genere il paziente non avverte alcun fastidio durante la seduta; solo alcuni riferiscono un modesto disagio dovuto alla posizione che viene assunta.
Una singola seduta di radioterapia dura pochi minuti. Il numero totale di sedute a cui si deve sottoporre il paziente è molto variabile a seconda del tipo di linfoma e della necessità clinica.
Esiste un particolare tipo di radioterapia che prende il nome di T.B.I. (total body irradiation) o irradiazione corporea totale. Si tratta di una particolare tecnica radioterapica che può venir utilizzata prima di un trapianto allogenico di cellule staminali al posto della terapia ad alte dosi. Questa procedura prevede di irradiare tutto l’organismo del paziente e serve a distruggere la maggior parte delle cellule malate, che verranno poi rimpiazzate da nuove cellule sane grazie a un trapianto.
Trapianto delle cellule staminali. Con il termine trapianto si fa riferimento ad una procedura di re-infusione di cellule staminali emopoietiche (CSE): si parla di trapianto autologo (autotrapianto) quando le CSE vengono prelevate dallo stesso paziente e di trapianto allogenico (allotrapianto) quando le CSE sono prelevate da un donatore sano, una persona quindi diversa dal paziente ricevente (fratello o sorella o un non consanguineo geneticamente compatibile).
Il trapianto di cellule staminali emopoietiche è una procedura molto utilizzata nella terapia dei linfomi, ma i due tipi di procedura, sebbene condividano nel nome il termine “trapianto”, rappresentano due modalità di trattamento antitumorale totalmente diverse sia per meccanismo d’azione contro il tumore sia per indicazioni terapeutiche.
Nel caso dei linfomi più frequente è l’utilizzo del trapianto autologo, che viene utilizzato come “consolidamento”, per eliminare gli eventuali residui di malattia che la chemioterapia convenzionale non è stata in grado di eliminare; a seconda del tipo di linfoma può essere utilizzato sia al termine della prima linea di terapia sia in seguito a una terapia di seconda linea nel caso di recidiva della malattia. Il trapianto allogenico viene invece riservato a situazioni particolari e spesso dopo fallimento del trapianto autologo.
Il trapianto autologo viene utilizzato per permettere di effettuare una chemioterapia a dosi molto alte, eliminando così eventuali residui di linfoma, che danneggia molto il midollo osseo del paziente, “rigenerato” però dalle cellule reinfuse.
Non tutti i pazienti sono eleggibili (cioè possono essere sottoposti) al trapianto: tale procedura, infatti ha dei rischi di tossicità, e non può essere utilizzata nei pazienti anziani o con gravi comorbidità.
Il trapianto allogenico permette invece di sostituire il sistema immunitario del paziente con un sistema immunitario nuovo, in grado non solo di rigenerare il midollo osseo in seguito alla chemioterapia, ma anche di operare una “sorveglianza immunologica” distruggendo eventuali cellule linfomatose residue anche a distanza di tempo. È tuttavia una procedura gravata da rischi ancora maggiori rispetto al trapianto autologo, e deve pertanto essere utilizzata in casi ben selezionati.
Terapia con cellule CAR-T. Le cellule CAR-T sono un tipo di trattamento molto innovativo, che sta rivoluzionando le modalità di cura di molti tipi di linfomi. La terapia sui linfociti T del paziente stesso: essi sono un particolare tipo di globulo bianco che normalmente difende il nostro corpo distruggendo le cellule malate o infette da virus.
Tali linfociti vengono raccolti dal sangue del paziente grazie a un separatore cellulare, e vengono inviati presso laboratori specifici ad alta tecnologia dove vengono modificati in modo da riconoscere e attaccare selettivamente le cellule del linfoma. I linfociti vengono quindi reinfusi al paziente in regime di ricovero ospedaliero con una modalità analoga a una normale trasfusione.
Il principale svantaggio della terapia è il lungo tempo necessario per la preparazione delle cellule in laboratorio (3-4 settimane). Inoltre, in seguito alla reinfusione, si possono verificare alcuni effetti collaterali particolari: febbre molto intensa e di difficile controllo e/o sintomi neurologici temporaneamente invalidanti.
Tuttavia, poiché non è una terapia di tipo chemioterapico, è efficace anche nei pazienti con malattie resistenti alla chemioterapia convenzionale.
È verosimile che nel prossimo futuro sempre più tipi di linfomi e in generale di patologie ematologiche si potranno giovare di questo trattamento innovativo.
Nausea-vomito. Grazie alla ricerca oggi sono stati sviluppati nuovi farmaci che riducono la nausea e il vomito, ma sono comunque utili piccoli accorgimenti quali evitare pasti abbondanti, preferendo pasti piccoli e frequenti, mangiando e bevendo lentamente.
Stitichezza-diarrea. Alcuni farmaci chemioterapici possono rallentare l’attività intestinale e determinare stitichezza. Se dovessero insorgere tali problemi si suggerisce di aumentare il contenuto di fibre della dieta, alimentandosi sempre in maniera equilibrata, e bere molto. Se necessario si può fare uso di un leggero lassativo, dopo essersi comunque consultati con il proprio medico.
Altri chemioterapici possono invece essere causa di diarrea per un temporaneo danneggiamento della mucosa intestinale. In questi casi è consigliabile bere molto, in piccole quantità. In ogni caso è bene informare il medico che potrà suggerire una eventuale terapia per il controllo della diarrea.
Abbassamento dei valori del sangue. Uno degli effetti più comuni della chemioterapia è l’abbassamento dei valori dell’emocromo, in particolare di globuli bianchi, globuli rossi e piastrine, portando rispettivamente a un maggiore rischio di sviluppare infezioni, una maggiore stanchezza e un maggior rischio di sanguinamento. Per contrastare questi effetti collaterali è importante attenersi ad alcune norme di comportamento (per esempio evitare di frequentare luoghi affollati) e vengono generalmente prescritti dal medico alcuni farmaci sotto forma punture di fattore di crescita da fare sottocute per prevenire un abbassamento eccessivo.
In alcuni casi è possibile che si debba ricorrere a trasfusioni di sangue o di piastrine.
Mucosite. La mucosite, o infiammazione del cavo orale, è un effetto collaterale abbastanza comune e fastidioso. Può essere migliorata con una buona igiene orale. Spesso è sufficiente spazzolare i denti dopo ogni pasto con uno spazzolino a setole morbide che deve essere sostituito ogni quattro settimane, ricordandosi di risciacquare la bocca con acqua e bicarbonato di sodio, oppure con un collutorio privo di alcool.
Opportuno evitare cibi piccanti e bevande alcoliche che possono aumentare l’irritazione, mente possono essere utili i ghiaccioli o i gelati. Sono da evitare cibi troppo caldi, difficili da masticare e il fumo. Consigliabile il burro di cacao sulle labbra per evitare screpolature e fissurazioni.
Caduta dei capelli. Molti chemioterapici, ma non tutti, causano la perdita dei capelli (alopecia), il cui effetto è temporaneo. I primi sintomi si manifestano due o tre settimane dopo l’inizio del primo ciclo di terapia e tendono a regredire da tre a sei mesi dopo la sospensione del trattamento. I capelli possono cadere a ciuffi e la perdita è generalmente completa, anche se esistono delle significative differenze individuali.
Fatigue (affaticamento). Durante il trattamento molti malati lamentano una profonda stanchezza dovuta non solo alla terapia e all’anemia, ma anche alla malattia e ai disturbi che questa determina. Oltre alla correzione dell’anemia e altre terapie di supporto, è utile il riposo, cercare di mantenersi il più possibile regolari nel bere e nel mangiare, e mantenere un minimo di attività fisica, compatibilmente con le proprie condizioni fisiche.
Disturbi della sfera sessuale. Le terapie non rendono impotenti, ma possono provocare sterilità. Pertanto, a tutti i pazienti in età fertile o che lo desiderino, viene offerta la possibilità di criopreservare i propri gameti, in modo da poter ricorrere eventualmente a tecniche di procreazione assistita. Inoltre, alle donne viene generalmente offerta la somministrazione di farmaci ormonali in grado di bloccare il ciclo mestruale e proteggere pertanto le ovaie dai danni della chemioterapia. Sono comunque normali in corso di chemioterapia irregolarità mestruali o cessazione temporanea delle mestruazioni.
L’attività sessuale non è vietata, ma in corso di chemioterapia e per un periodo di circa due anni dalla fine della stessa è importante evitare la procreazione: pertanto è necessario utilizzare metodi contraccettivi efficaci.